Ho sentito dire molto spesso che quando si è arrabbiati o molto addolorati si dicono cose che non si pensano. Io non credo che sia così. Non è il sentimento della rabbia o del dolore in sé che fa uscire dalla nostra bocca parole alle quali nemmeno noi stessi crediamo. Alla base di questo fenomeno ci sono due atteggiamenti mentali errati:
1) Non ci è effettivamente chiaro il sentimento che stiamo provando. Ci sentiamo arrabbiati, confusi, agitati ma non riusciamo a percepire questi stati d'animo isolatamente. Avvertiamo un grande malessere e questa sensazione così penosa ci appanna maggiormente la mente. Dentro di noi si forma un calderone di pensieri: al torto che presumiamo aver subito si aggiungono le nostre insicurezze, paranoie, paure. Questi sentimenti si mescolano tutti insieme e ogni pensiero non fa che aumentare la loro intensità;
2) Siamo altamente consapevoli (anche se non del tutto) di ciò che ci turba ma decidiamo volontariamente di rimanere criptici. Il presumere di aver subito un torto ci fa credere che da quel momento in poi, qualunque cosa diremo, sarà interpretata da chi ci sta di fronte come un chiarissimo segnale del nostro disagio. Saremo vittime alla ricerca di un riscatto. Ci sentiremo in diritto di dire qualsiasi cosa alla persona che ci ha ferito: dagli insulti a frasi incomprensibili e senza senso. Tutto questo sarà per noi un ottimo modo per girare intorno al motivo del nostro turbamento senza affrontarlo mai per davvero né con noi stessi né con chi stiamo interagendo.
Questi due atteggiamenti mentali, oltre a provocare il grande senso di frustrazione di cui ho accennato prima, conducono ad altre coseguenze altrettanto gravi: la colpa del nostro dolore ricade inevitabilmente sull'altro. La persona che presumiamo ci abbia ferito o che viene scelta da noi come oggetto su cui sfogarci per sentirci meglio non viene solo investita della responsabilità di aver causato un danno o di redimerci ma sarà inevitabilmente accusata di non essere in grado di capirci.
Il nostro dolore è così forte che pensiamo sia ovvio dall'esterno capire cosa ci turba. Ma non è così: la nostra incapacità di comunicare gli stati d'animo provoca negli altri confusione ancora maggiore. Chi vorrebbe consolarci non riesce a farlo perchè non capisce quale sia il punto centrale del dramma, chi è dispiaciuto di aver sbagliato non riesce a chiedere scusa perché viene attaccato con violenza (dalle parole, dai gesti e dai silenzi), chi invece non sa nemmeno di aver sbagliato, a causa di questo pessimo tentativo di comunicare, non riesce a capire se ha fatto un errore e quale esso sia. Il colpo finale sarà la rottura del rapporto. Una rottura che si verificherà o quasi subito o con il tempo, quando tutta la dose di rancore accumulato renderà impossibile ogni riconciliazione.
Triste, vero? Ma questa è la vita di tutti i giorni. A quanti di noi sarà capitato! Ammetto che a me è accaduto diverse volte. La buona notizia è che non tutto è perduto: la filosofia e la piscologia sono state le mie più grandi alleate nel farmi notare cosa danneggiava alcuni dei miei rapporti interpersonali. Ho compreso che gli altri non possono capirci se non esprimiamo in maniera chiara e lineare quello che sentiamo. Il linguaggio è lo specchio dei nostri pensieri. Se non abbiamo ben chiaro dentro di noi cosa stiamo provando non saremo mai capaci di far capire all'altro mediante le nostre labbra cosa davvero ci ferisce e ci fa star male. Scaricare la colpa sull'altro che “non mi capisce!” è un meccanisco inconscio che scatta dentro di noi nel momento in cui ci rendiamo conto di essere incapaci di esprimere ciò che è tanto forte dentro di noi. Ci sentiamo impotenti e questo ci spaventa. Cicerone diceva che non si può parlare di quello che non si conosce. è vero. Se non siamo consapevoli di quello che abbiamo in mente non potremo tradurlo in linguaggio. La confusione che gli altri vedranno in noi sarà il risultato non della loro incapacità di capirci ma l'espressione della grande confusione che noi abbiamo dentro. Douglas Horton disse che: “Il pensiero precede l'azione”. Lo stesso accade per il linguaggio. La comunicazione è una vera e propria azione che per andare a buon fine deve essere preceduta da un pensiero. Un'espressione, verbale e non verbale, chiara e concisa ha necessariamente bisogno di essere preceduta da un pensiero altrettanto lineare.
All'inizio percepiremo come faticoso esprimerci correttamente. Proveremo un grande imbarazzo nel farlo perchè ci sentiremo (finalmente) messi a nudo. Allo stesso tempo, però, scopriremo che il linguaggio è uno strumento prezioso capace di migliorare le nostre relazioni con gli altri e che non serve a nulla riempirli di estenuanti e freddi silenzi o di rancori e recriminazioni. Ci accorgeremo anche che non c'è nulla di più bello della mutua comprensione e della fiducia reciproca. Ricordate sempre che anche una discussione può rendere più profondo il legame tra due o più persone ma l'artefice di questa unione sarà il linguaggio che avremo usato per spiegarci. E se dovesse capitarci di rompere un rapporto con una persona con cui proprio non riusciamo ad andare d'accordo, qual è il problema? Non si può piacere a tutti e stare bene con tutti. L'importante è che prima di prendere ognuno la propria strada, mediante una comunicazione efficace, siano chiare le rispettive motivazioni per cui non si riesce più a proseguire insieme il cammino.
In sintesi, ecco la regola #2 per una buona comunicazione: Il linguaggio è lo specchio dei nostri pensieri. Un pensiero lineare è causa necessaria per una buona comunicazione. Nei rapporti interpersonali abbiate cura di esprimere con chiarezza i vostri sentimenti ed emozioni. Ponetevi faccia a faccia con voi stessi per focalizzare quale sia il vostro disagio: le parole giuste seguiranno da sole!